Assaf, un adolescente impiegato temporaneamente alla Protezione animali, ha una (com)missione da compiere: restituire un cane alla sua padrona e recapitare alla stessa una multa di centocinquanta shekel per la negligenza mostrata nella cura dell’animale. Sarà proprio Dinka, un magnifico Labrador color miele a guidare Assaf per le strade di Gerusalemme alla ricerca di Tamar, una ragazzina fuggita da casa con un cane e una chitarra nel tentativo disperato di trovare il fratello tossicodipendente. I loro destini si incroceranno presto e sarà l’ostinata volontà di Assaf a salvare i due fratelli da Pesach, un protettore criminale che sfrutta il talento artistico dei ragazzi di strada, nascondendo sotto le note loschi traffici di droga. Tratto dall’omonimo libro di David Grossman,
Qualcuno con cui correre è un romanzo di formazione dal sapore dickensiano, ambientato in uno spazio cittadino che grava sui protagonisti, imprigionandoli nell’infelicità di un’adolescenza maltrattata. I ragazzini allo sbando non sono un’invenzione neppure a Gerusalemme e tutta la storia si concentra nella sfida di Assaf alla paura, all’assenza e al disorientamento per l’eclissarsi e il disfacimento della figura genitoriale. Il protagonista, correndo con un cane e una speranza mai sopita, prova a cambiare la vita di una sua coetanea. La sua è una lotta eroica normale che vorrebbe riconsegnare Tamar al tempo di un’innocenza ancora possibile, una lotta sulla capacità e necessità di sopravvivere in un contesto di inarrestabile decadenza. Eppure lo sguardo di Oded Davidoff non appare mai sinceramente integrato nella prospettiva dei giovani protagonisti, mostrandosi piuttosto incline alla retorica del mondo salvato dai ragazzini. Ciò che risulta totalmente assente è l’ineliminabile componente sociale, da intendere non tanto come ricognizione delle problematiche contemporanee, quanto come “immersione” in quella realtà dalla cui esperienza scaturisce la presa di consapevolezza dei protagonisti. Personaggi che oscillano fra la costipazione e la deflagrazione: l’impossibilità di sopportare oltre e di esprimere appieno. Ma è il
film stesso a coltivare questa indecisione al punto che la rabbia e il disagio rimangono in superficie, assunti senza essere indagati, ogni gesto è fine a se stesso, non facendosi rivelatore di nulla. Tamar mortifica se stessa in un continuo gioco di allontanamento da sé e dalla resa dei conti che sembra non arrivare mai. Certo, trattandosi di un film di formazione con incluso apologo morale, i cattivi vanno puniti a prescindere, anche se tardivamente, e così il film, che voleva stupire con una narrazione diluita a base di analessi e prolessi, si riconsegna ad una prevedibilità più generale.
Qualcuno con cui correre paga lo scotto di una regia senza lampi (di genio) e, in Italia, di un doppiaggio che vanifica l’espressività dei personaggi.